LAVAREDO ULTRA TRAIL 2016 - EMOZIONI DI UN FINISHER
Cortina d’Ampezzo, venerdì 24 giugno, ore 21:30. Pioggia, anzi no, temporale della madonna. Poco meno di due ore alla partenza della mia prima Lavaredo Ultra Trail. Rinchiuso in camper con Mauro, il mio compagno d’avventure che per stavolta ha deciso di “limitarsi” ai 47 km della Cortina Trail, controllo lo zaino, riempio le borracce e mi accerto di non aver dimenticato nulla. Integratori, gel, batterie, lampada frontale, Garmin, testa, cuore, eccheccazzo!! La vogliamo smettere con tutta sta pioggia?!! Al diavolo, manca un’ora, io qui dentro mi agito quindi esco. Prendiamo l’ombrello e ci dirigiamo verso Corso Italia. Mauro prospetta situazioni paradossali che in confronto le piaghe d’Egitto sono un granello di sabbia nell’occhio. Runners inebetiti dappertutto che silenziosi si dirigono al patibolo, in lontananza la struttura che delimita la partenza e una folla di amici, parenti, bambini, speakers, preti, suore e cani trepidanti di vedere i loro cari giustiziati nel nome di questa assurda passione chiamata ultra trail.
Incrocio volti visti e rivisti, li saluto, qualcuno contraccambia, altri se ne fottono e fanno bene. Trovo Alessandro, il mio Virgilio. D’ora in poi, oltre a correre, dovrò rimanergli attaccato. Lui la LUT l’ha fatta quattro volte, conosce ogni singolo centimetro del percorso e in lui ripongo la timida speranza di ritornare a Cortina con le mie gambe. Saluto Mauro, ci abbracciamo come solo gli amici sanno fare, in un modo o nell’altro ci rivedremo.
Meno dieci minuti alla partenza, adrenalina e paura a mille, ha smesso di piovere ma decido di tenere lo stesso la giacca, mi rinchiudo nella mia bolla, penso a mia figlia Costanza che a quest’ora starà dormendo e mi viene un groppo alla gola. Al diavolo, ho il pelo sullo stomaco io!!
Meno due alla partenza, ultime strette di mano, ultime pacche sulle spalle, ultimi sorrisi, ci si vede tutti all’arrivo orda di pecore!!
Torce frontali accese, i gps agganciano il segnale, scarpe allacciate, testa bassa, occhi chiusi. Nell’aria le note del maestro Morricone.
Meno dieci, nove, otto, sette… due, uno. Via.
L’esodo comincia. In un turbinio di emozioni, urla, flash e racchette che tintinnano a contatto con i sampietrini, lasciamo il centro. Euforia e scene da film. Gente vestita come se dovesse scalare l’Himalaya, ragazze praticamente nude, addominali scolpiti in bella vista, seni prorompenti nascosti da mini body invisibili ed esclamazioni di disappunto che farebbero rabbrividire il peggiore degli eretici.
E poi ci sono io che seguo Alessandro. Prima salita, fiato a mille e gambe turbodiesel con le ridotte. Mezz’ora a testa bassa e giù verso l’ignoto in mezzo al bosco. Rifugio Ospitale, 18 km, primi, pochi, ritirati causa distorsioni che smadonnano come se non ci fosse un domani. Pazienza, capita a tutti, nessuno escluso. Ricarichiamo le borracce, mangiamo qualcosa, check-up veloce e via che non siamo mica qui a spazzare le dune.
Vai Ale, fa strada che qui giro a mille. Forcella Son Forca, divorata altra salita, paura zero. Avanti. Discesa direzione Federavecchia, 38 km bruciati. Albeggia e mi viene sonno. Altro ristoro, altra ricarica. Ingoio due gel gusto gasolio, la caffeina fa il suo dovere. Bene Alessandro, fai strada. Alessandro fai strada ti ho detto, Alessandro? Alessandrooo? Alessandrooooo?!!!! In mezzo a centinaia di sfollati ho smarrito Virgilio. Lo cerco, non c’è, lo ricerco, non c’è. Pazienza, lo ribecco prima o poi. Riparto con una francese bona, gli mastico due frasi scacciapassera, la saluto, butto la seconda e riparto. Dopo dieci metri la francese si ferma e tira un bestemmione. Tutto bene le chiedo? “No, je suis tres fatiguée”. Si siede sull’erba, si accende una sigaretta, altra bestemmia, riprende i bastoncini e ricomincia a salire come se nulla fosse.
Allibito riparto in solitaria, spengo il cervello, testa bassa, salgo e mi concentro. Breve tratto asfaltato per poi rientrare nel bosco, breve discesa e via che si va di fango e radici. Cado, appoggio la mano e il fango mi ingoia il braccio. Altra discesa, arrivo al lago di Misurina. Sonno e fame, mi siedo sulla panchina in prossimità dell’impianto di risalita, prendo fiato, sorseggio dell’acqua e divoro un Mars. Le tempie mi pulsano, vista annebbiata. Urge riposo.
Chiudo gli occhi cinque minuti, mi sveglia un’orda di spagnoli, sorrido per non mandarli da dove sono venuti e riparto. La salita mi mastica i muscoli, non cedo, non mi fermo e a testa bassa raggiungo Rifugio Auronzo, percorsi 50 km, sono le 8:30 del mattino. Zuccheri, voglio zuccheri e carboidrati. Bevo una Coca Cola, prendo una minestra con il parmigiano, mi siedo, saluto qualcuno e mando diavolo altri. Umore a zero, pessimismo cosmico, chi me l’ha fatto fare e soprattutto dove cazzo è Alessandro?!!
Venti minuti di riposo, riaggancio lo zaino, prendo i bastoncini, esco dal rifugio e corro all’attacco di Forcella Lavaredo. Le tre cime mi ripagano dello sforzo finora fatto, scatto qualche foto, invio messaggi finalizzati a rassicurare amici e parenti e via verso i diciotto km di discesa che mi porteranno a Cimabanche. Sorpasso di nuovo la francese che cerca disperatamente di farsi un selfie, sorrido e mi offro di farle da fotografo. Scatto, lei ringrazia, si accende una sigaretta e sparisce. Divoro i primi 8 km, discesa tecnica e potenzialmente letale per le caviglie, sorpasso la francese, qualche spagnolo, uno stormo di tedeschi e un’ucraina. Una barzelletta.
Raggiungo Cimabanche, i sei km pianeggianti che precedono il punto vita sono emotivamente devastanti, dritti, esposti al sole e soprattutto infiniti. Arrivo, prendo la borsa con il cambio, mi spoglio e mi rivesto con vestiti puliti, abbondo di vaselina e creme varie, mangio qualcosa e riposo un quarto d’ora. Si vocifera che a mezzogiorno i ritirati fossero più di trecento. Non mi perdo d’animo, c’è ancora tanta strada da percorrere e il pessimismo non rientra tra i sentimenti che mi voglio portare appresso.
Conosco dei romagnoli che a loro volta si sono conosciuti lungo il percorso, mi chiedono se voglio unirmi a loro. Accetto, rabbocchiamo le borracce e ripartiamo in direzione Forcella Lerosa. La salita non è particolarmente impegnativa, l’umore è buono e il fisico risponde bene. Raggiungiamo la cima e corriamo a perdifiato verso il ristoro di Malga Ra Stua. Tre dei quattro romagnoli decidono di ritirarsi, si alza il vento e si abbassano le temperature. Procedo con due romani in direzione Val Travenanzes. La salita è molto impegnativa e per la prima volta il corpo si rifiuta di eseguire gli ordini della testa. Crisi, crisi profonda, crisi talmente profonda da fregarsene del paesaggio mozzafiato, del tempo che passa e del temporale che si sta per abbattere. Mi fermo, mangio un altro Mars e ingoio ancora gel gusto gasolio nella speranza che qualche sostanza magica mi rimetta in piedi.
Attendo qualche minuto, la francese mi passa, impreco fissandomi la punta delle scarpe, mi rialzo e molto lentamente ricomincio a salire. Fortunatamente la crisi passa, raggiungo il gruppo, guado e riguado il fiume e alla fine raggiungo Forcella Col dei Bos. Arrivo al Rifugio Col Gallina sotto una pioggia torrenziale, la protezione civile riporta i ritirati a Cortina con i pullman perché sono troppi e sarebbe inutile fare la spola con le camionette.
La pioggia si trasforma in temporale, la temperatura scende, sono le nove di sera e il corpo mi chiede con prepotenza di dormire. 94 km percorsi, più o meno 25 da percorrere. Riparto con due nuovi compagni, Massimo, un ragazzo di Brescia e un romano di cui non ricordo il nome.
Prendiamo la salita dell’Averau, fango, pietra e le New Balance che rifiutano ogni appiglio. Le maledico, giuro a me stesso che appena arrivo a Cortina le butto nel primo cassonetto che trovo. Raggiungiamo il ristoro, entro in bar del rifugio per bere qualcosa di zuccherato e mi ritrovo un tipo steso vicino alla stube che trema come una foglia. “Ha le convulsioni” mi dice il barista, “lo vedo” rispondo. Mi sale una risata isterica ma la soffoco per rispetto della compagna che lo accudisce in attesa che arrivi la protezione che lo porterà solo dio sa dove. E’ buio, fa freddo ma fortunatamente non piove più. Il tratto che ci separa dalla Forcella Giau è un calvario per gambe e caviglie. Salite verticali e rocce che ostacolano ogni passo, troviamo la neve ma chissenefrega, Cortina è vicina e tutto il resto non conta nulla.
105 km, goodbye forcelladelcazzogiau, adesso scendiamo e ritorniamo a casa. Raggiungiamo Rifugio Croda da Lago, il romano parte a razzo senza salutarci, io e Massimo mangiamo qualcosa e ci prepariamo a percorrere la tanto temuta discesa in mezzo al bosco. 13 km di fango e radici, aderenza pari a zero. In sei km cado sei volte, Massimo ride e io impreco.
Usciamo da bosco, la stanchezza mi provoca allucinazioni, vedo camper che non ci sono e gente che spegne luce di condomini che non esistono. La butto in vacca, Cortina è a due km, propongo a Massimo di correrli a perdifiato ma lui non ne vuole sapere perché ha paura che il cuore gli esca dalla bocca. Raggiungiamo il centro, Cortina ci regala per un paio di minuti Corso Italia, Mauro è li che mi aspetta con la pazienza che solo un amico può avere, l’arrivo è a 50 metri.
Io e Massimo ci stringiamo la mano, l’arrivo è a 30 cm dal mio naso, mi fermo, abbasso la testa in segno di rispetto e taglio il traguardo.
29 ore, 17 minuti, 34 secondi. Tanto tempo, troppo. Ma va bene cosi.
Rispetto nei confronti dei luoghi che mi hanno accolto, delle centinaia di persone che hanno dedicato il loro tempo a me, a Mauro, a Massimo, alla francese fumatrice, alla mia famiglia che asseconda la mia necessità di correre, al mio corpo sano e forte e alla vita che, per quanto dura e ingiusta possa sembrare, trova sempre il modo di riscattarsi.